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Storia degli dèi divisi (2010)

  • Immagine del redattore: Salvatore Pellegrino
    Salvatore Pellegrino
  • 6 ott 2018
  • Tempo di lettura: 17 min


Questa è una storia senza tempo. Una storia che risale a quando gli esseri umani ancora non calcavano questo pianeta, allora ancora verde e rigoglioso. Nel regno dei cieli, gli dei governavano e tiranneggiavano su un territorio immenso e dalle illimitate risorse, molto prima della violenza che l’uomo avrebbe portato a se stesso e al suo simile, prima che esseri ostili alla loro stessa razza cominciassero a conquistarsi lo spazio vitale, versando sangue. Sangue e lacrime. Prima che l’amore cominciasse a bruciare le anime. Prima. Ma i Celesti non erano come sarebbero stati poi gli esseri umani. Privi di passioni, d’impulsi e di ogni senso antropico, Essi governavano come macchine inermi una landa tanto rigogliosa quanto desolata. Ma tuttavia a loro il Fato non concesse mai di discendere dai cieli per godere dei benefici di questo pianeta. Umani nell’aspetto, ma vuoti nel cuore. Finché non nacque un bambino. Non frutto d’amore ma esito di uno svergognato senso di procreazione atto esclusivamente ad arricchire le fila della stirpe immortale del padre degli dei. Nato senza amore, proprio costui fu il primo a provare quel complesso e irrazionale groviglio di emozioni che noi chiamiamo “amore“. Immortali eppure vuoti. Immortali eppure vuoti erano gli dei. Il nome del bambino era Canavar. Figlio del dio del Tuono e della dea della Saggezza, questo bambino era diverso dagli altri che popolavano il suolo sacro del Mondo Divino, il Dünya. Dall’animo sensibile e generoso, puro come uno specchio d’acqua ma con gli occhi più profondi e neri della notte stessa, costui crebbe tra le fratricide e ottuse lotte dei Numi, tra i loro inganni e il loro smodato egocentrismo. Era come un fiore sulla ripa scoscesa di un alto monte, martoriato dalla neve e dal gelo. Le sue radici erano le uniche cose che lo trattenevano ancora lì, ben salde alla vita. E poi c’era lei. Ay. Figlia del dio del Mare e della dea Rugiada. Di bellezza superiore ad ogni altro essere divino, Ay aveva una grande sensibilità e i suoi occhi verde smeraldo sapevano penetrare nei più remoti luoghi del cuore umano, in profondità, fino a svelarne i desideri più assopiti e le paure più terribili. Dalla prima volta in cui i loro sguardi si incontrarono, da quando Canavar scrutò con i suoi occhi corvini - completamente neri, senza alcun riflesso di una minima luce – quelli intensissimi e meravigliosi della fanciulla, da quando compresero che il buio non può esistere senza la luce, da quel momento, capirono di essere indispensabili l’uno per l’altra. Compresero di avere un’altra esistenza. Ora altri respiri animavano il loro petto e proprio lì, nel loro torace, sotto lo sterile spessore di carni eterne e di sangue scarlatto d’ambrosia, si udivano strani rintroni, echi. Regolari se soli, accelerati se gli sguardi si cercavano, ancor più rapidi se si scorgevano, armoniosamente avvolti in un crepitare di emozioni, in un ardente fuoco di passione e di pena, se gli occhi dell’uno si specchiavano in quelli dell’altro. Fu così che due immortali provarono per la prima volta sentimenti umani. Successe nel giardino paradisiaco, il Nieba, tanto tempo fa. E fu talmente fulmineo e naturale che Canavar e Ay non ebbero nemmeno il tempo di avere la minima sorpresa nello scoprirsi presi d'amore. Fu come un fulmine che li colpì nel petto, come un terremoto che scosse il loro animo. E così crebbero insieme, congiuntamente crebbero i loro sentimenti e da quel momento in poi all’unisono batterono i loro cuori. Ma non erano gli unici dei ad essere capaci di provare le emozioni. Vi era anche un altro immortale a possedere questo dono. Il suo nome era Siçan, divinità dell’Inganno, scaltro figlio del dio dell’Ipnosi e della dea del Sonno. Costui aveva animo torbido e una crudeltà senza limiti. Nutrendosi come un parassita delle afflizioni e dei dolori di tutti gli esseri del mondo celeste, Siçan crebbe nell’odio e nell’indifferenza del suo simile, nella più completa tenebra e infamia mentre il suo cuore bramava giorno dopo giorno una terribile, insensata e spietata vendetta contro coloro che erano felici. Il mondo divino era etereo, diafano e candido, completamente spoglio di vegetazione. Molte volte, infatti, affacciandosi sul mondo terreno, gli dei avevano notato molte varietà di fiori e piante. Ma nessun fiore era più bello della rosa. Si dice che fosse nata dalle gocce del sangue che dal mondo degli dei colarono fin nel nostro mondo, quando il dio della Guerra si scontrò con suo padre per il controllo supremo dell’Assiah, la Terra. Altri dicono che la rosa nacque dal sangue degli immortali che si uccisero ai tempi della Guerra Sacra per il predominio del Trono dei Cieli. Altri ancora sono convinti che si fosse generata dalle preghiere spezzate che le anime dei morti della Gehenna, gli Inferi, volgevano al cielo. Gocce cadute giù o volte al cielo, vita nata da morte, amore nato da odio. Sangue. Terra. Amore. Un infinito ciclo di nascita, morte e resurrezione. Ay più volte aveva osservato interi campi di quegli stupendi boccioli, più volte tendeva dai cieli la tenue mano per prenderne qualcuno. Ma il cielo era lontano: agli dei non era concesso di possedere cose mortali né di calpestare umani sentieri. E il desiderio della giovane ragazza dai capelli argentati crebbe insieme al suo corpo. Ed arrivò l’età della maturità. Non so bene cosa dicano i mortali, ma sappiate che gli dei crescono come gli esseri di Assiah. Crescono, eppur sono immortali. Fortificano i muscoli, la forza, la vista e i sensi tutti ma del cuore sono lascivi e negligenti. E quando diventano vecchi, rimangono ancora gagliardi e forti, vecchi nell’aspetto ma forti come in gioventù. Se così fosse anche per noi umani, a cosa servirebbero l’esperienza che tempra e la fiducia che i nostri discendenti meritano in gioventù? E i nostri insegnamenti? E il nostro aiuto? E il nostro ceder loro il passo? Allora saremmo egoisti e assetati di gloria, egocentrici e volti solo a ciò che teniamo in pugno. Saremmo dei. Non aspetteremmo la morte come meta di riposo ultimo ma vivremmo una morte eterna. Un bel giorno Siçan, geloso della felicità con cui i due innamorati si amavano o forse del fatto di non poter provare egli stesso sentimenti così profondi, escogitò un diabolico piano. Era un pomeriggio sulla terra, mentre nei cieli il tempo - cristallizzato, sterile e statico come le forme su cui rifletteva - non scandiva i suoi istanti. Canavar sedeva all’ombra di un faggio a scrivere rime d’amore e annotava, intanto, gioiose e melodiose note per la sua Ay. All’improvviso le acque ambrosiane del torrente che scorreva vicino a lui fermarono il proprio corso. Da queste poi sorse la magra e sterile figura del dio dell’Inganno. Canavar ne fu sorpreso e tacque.

«È uno stupendo pomeriggio non trovate, giovane principe? – disse Siçan sibilando nella penombra».

«Si, Siçan. Molto bello. E freddo» rispose il giovane dio.

«Dite bene» riprese il crudele, accostandosi al faggio come un viscido serpente e quasi avvolgendolo «Mi hanno detto che la giovane Ay è molto affascinata da quegli arbusti terrestri. Fiori li chiamano gli esseri di Assiah, rose la loro specie. Sarebbero ancora più splendide se le coronassero il viso, non trovate?»

«Misura le tue parole e attento a ciò che dici, viscido insetto» ringhiò Canavar, che fece per alzarsi e colpirlo ferocemente «Macchini sicuramente un piano a me ostile. Cosa cerchi?».

«Niente, o mio saggio e avveduto signore» gli occhi iniettati di sangue, ma i nervi sotto controllo «Niente. Quel vostro carattere irruento e feroce non si addice a un giovane principe. Stavo solo pensando. Potreste portarne qualcuno quassù, offrirlo a lei come dono di nozze. Più ne raccoglierete e maggiore sarà la sua felicità. E voi, nobile signore dei cieli, volete sicuramente vederla felice».

«Si, certo» riprese ricomponendosi Canavar, titubante eppure ancora speranzoso nell’impossibilità di portare a termine quell’impresa «ma agli dei non è concesso».

«Bugia, giovane principe. Bugia» sussurrò il maligno, gli occhi scintillanti e la lingua tagliente. Tutto andava secondo un suo disegno.

«Che intendi? Spiegati, svelto» incuriosito, speranzoso, quasi lieto in verità parlò il giovane.

«Lo farò subito, giovane principe innamorato» il suo viso calmo, solare e confortante nascondeva un ghigno malvagio. Perché fare tutto questo? Perché rovinare due giovani? Perché tale malvagità corrodeva il suo animo? Non erano quesiti che egli poteva porsi in quel momento. Follia, forse, desiderio di oscurare ogni cosa che potesse emanare calore e luce. Forse dolore celato. E desiderio di annichilire ogni forma ben radicata di Bene. Poi egli parlò.

«Giovane principe. Guarda».

Non appena ebbe finito di pronunciare queste parole davanti all’ingannatore si sviluppò un grande fuoco crepitante e terribile nell’ardore. Era dorato e intenso, caldo e quasi opprimente eppure non molto vasto. Canavar rimase sorpreso.

«Cos’è?» disse poi.

«È ciò che io chiamo … fuoco. Nasce quando le saette del nostro mondo colpiscono le piante terrestri. Sembra dotato di una vita propria e distrugge tutto ciò che crea. Ma c’è anche un’altra proprietà di cui è capace. Purifica i corpi. Io voglio aiutavi, mio signore. Se offrirete al fuoco il vostro corpo immortale, patirete certamente un dolore immenso. Ma in cambio avrete quel potere che non è concesso agli dei. Potrete allora discendere sulla terra e raccogliere i fiori per la vostra amata. Poi potrete fare ritorno in cielo. Ma badate bene: solo una volta potrete discendere e una volta risalire, entro e non oltre il crepuscolo terreno. Se questo divieto non sarà seguito, rimarrete a vita confinato nel mondo sottostante, da semplice mortale. Farete felice la vostra compagna e io terrò la bocca chiusa. In cambio, sire, voglio solo che voi siate felici tra gli altri dei meschini e corrotti. Siete due fiori che sopravvivono all’uragano. Mi sia concesso l’ardire».

Canavar sembrò dubbioso.

«Perché mi aiuti, dio dell’Inganno? È forse questa un’altra tua folle macchinazione?».

«Niente affatto. Perdonatemi, signore, ma che male c’è a voler aiutare due esseri destinati a essere tutt’uno?».

«E sia. Accetterò il tuo dono. Ma se mi ingannerai, io ti… - e Canavar digrignò i denti con rabbia».

«Frenate i vostri bollori, mio giovane principe. So benissimo cosa mi farete. Siete tanto spietato quanto potente e temibile. Eppure, in tutto ciò il vostro cuore è più forte del vostro pugno, queste passioni vi rendono così docile allo sguardo di una fragile dea? Così i vostri impietosi occhi cercano in lei bagliore di vita? Calmatevi, suvvia…» gli pose l’ingannatore una mano sulla spalla robusta e gli sussurrò «… rivestitevi del nobile fuoco e con esso ottenete l’adempimento del vostro desiderio ».

Il giovane principe si alzò in piedi in tutto il suo energico vigore. I capelli corvini ondulavano alla dolce brezza del giardino mistico. Chiuse gli occhi. Nei suoi pensieri solo lei. Il suo sorriso. I suoi capelli. Le sue rosse labbra. Gli occhi. Li riaprì e fissò il fuoco. Qualcosa di innaturale e arcano lo spingeva a temerlo, a fuggire il suo calore ma ad esserne al contempo affascinato. Avanzò di due passi. Deglutì. Si lanciò verso il fuoco. Per lei. Per lei. Per lei. Si gettò impetuosamente tra le fiamme, che lo inghiottirono senza pietà. Gemette, bruciò, urlò di dolore, si accasciò sulle ginocchia e si portò le mani ustionate alle tempie. Poi, quando gli fu dato il segnale, ne uscì. Il suo corpo, rovente e malridotto, si stava rigenerando: dopotutto era il corpo di un dio e gli dei rimarginano sempre le loro ferite corporee. Quando il processo di guarigione fu terminato, Siçan gli mostrò il cammino per la terra. Una volta percorso il sentiero che dal cielo conduceva al nostro mondo, Canavar posò finalmente i piedi sul suolo terrestre. Una fitta e prolifica vegetazione gli si presentò dinnanzi agli occhi; da ogni parte fiori, piante colme di succulenti frutti ed ortaggi di ogni specie foderavano il nostro pianeta. E proprio lì, in mezzo a tutto quel verde, il giovane principe adocchiò un rovo di rose. Toltosi dunque il mantello egli lo usò per fasciarne alcune. Quando ebbe colto delle preziose rose, Canavar pensò di perlustrare un po’ quel mondo ancora primitivo e selvaggio. Era ancora mattina e solo prima del tramonto doveva fare ritorno a casa. C’era tempo a sufficienza. Passarono alcune ore umane e Canavar, ormai stanco di quel lungo viaggio e impaziente di donare i fiori ad Ay, si preparò a ritornare in cielo. Chiamò dunque a gran voce Siçan e, una volta vedutolo alla sommità di una nube, gli chiese di aprire il passaggio. Ma il malvagio dio lo scrutò severamente dal cielo luminoso, poi sogghignò. Rise, di un riso malvagio, corrotto, oscenamente crudele.

«Giovane principe, trascorso è il vostro tempo! Giunta è l’ora crepuscolare! Non avete più diritto di tornare nei divini cieli. Vi condanno a vivere da mortale, insetto senza anima. Muori lì! Muori nella disperazione della tua umana condizione, nel limite della morte e senza amore!».

Mentre parlava, il cielo si tinse di rosso. Il tramonto. La sua diabolica risata sembrava fendere le nuvole, lo stesso sole calante sembrava inchinarsi al cospetto della sua malvagità. Il suo volto era una maschera di spaventosa di odio e follia. Canavar non riusciva né poteva crederci e furioso come una belva, ringhiò:

«Cosa hai fatto, maledetto traditore?! Come è potuto accadere?»

«Giovane ragazzino viziato! Stupido sciocco! Taci di fronte al dio che ti si para di fronte. Ho alterato il tempo terreno, trasformato i secondi in minuti, le ore in giorni, la luce diurna nella tenebra delle ore notturne. È ormai il tramonto. Scaduto è il tempo: è il patto! Striscia su questa terra e muori da inerme mortale! Non vedrai mai più la tua amata. E mai nessun dio potrai vedere. Ma noi, al contrario, potremmo ridere delle tue sciagure e della tua stoltezza finché avrai vita. Stolto infatti è quel dio che pretende di poter far ritorno ai cieli una volta disceso in Assiah! Di questa tua insana stoltezza racconterò d’ora in poi agli altri dei miei pari. Addio, giovane innamorato. Che la morte ti sia amica nell’ultimo istante e che ti conduca verso gli abissi senza luce di Gehenna».

Detto questo, sparì tra le nubi gonfie di pioggia con il fragore del tuono. Sbalordito, folle di rabbia e con gli occhi stralunati, Canavar urlò di rabbia e dolore. Contro il cielo oscuro e brulicante di spietate saette. Contro i temporali maledetti che infangano il suolo, contro i venti che soffiavano in quel mondo disabitato e così primitivo. Maledisse gli dei e lo spietato che l’aveva costretto a scontare una condanna senza colpa alcuna, mentre una pioggia fitta e desolata cominciò ad umettare il suo corpo. Urlò ferocemente contro il cielo, contro suo padre, Re degli dei eppure solo un loro burattino, contro la Sorte avversa, il Karma e il libro del Fato. Il suo cuore era pregno solamente di odio ormai. I suoi urli furono sentiti proprio da Ay che da tempo lo ricercava nel mondo superiore. Affacciatosi alla nube (il passaggio era rimasto ancora aperto), lo vide disperarsi in lacrime e lacerarsi le carni con le spine delle rose: ma egli non poté vederla. Folle di dolore e desiderosa sopra ogni altra cosa di abbracciarlo di nuovo, pregò uno dei tanti dei di poter discendere sulla terra. Ma le fu negato proprio a causa della regola. La giovane allora si ammalò di dolore: ma era un male che non corrodeva né le membra né il corpo né i lineamenti eterni ma l’animo e il cuore. Piangeva l’infelice, notte e giorno. Piangeva fino allo sfinimento, fino alla consunzione. E lo vedeva lì, sulla terra mortale, urlare e piangere, piangere e urlare. Ormai egli non riusciva più ad articolare parola né pensiero razionale né di tuniche regali aveva bisogno. Si strappava le vesti, lacerava le sue carni, digrignava orribilmente e furiosamente i denti, volgendo sempre il volto verso la sede dei beati, verso colei che ormai gli era preclusa. Gemeva, singhiozzava e graffiava orribilmente il terreno umidiccio fino a rompersi le unghie. E gli occhi? Oh miei uditori, i suoi erano ormai quelli della peggior divinità infernale (come quelli di Hajkuyaishi il Sanguinario, orrido squartatore di anime). Vuoti, senza luce e folli cercavano solo vendetta e sangue divino, mentre il suo corpo era oramai incapace di camminare su due gambe e, vacillando, rimaneva al suolo. Quattro arti ormai gli erano necessari a mantenersi eretto. I suoi capelli, giorno per giorno, crescevano, si infoltivano e diventavano sempre più robusti, scarmigliati e corvini. Finché quella chioma che un tempo fu superiore a tutte le altre perfino tra le divinità, non generò una criniera che andò a congiungersi con la folta peluria della schiena. Nello stesso modo la barba selvaggia e trasandata si congiunse saldamente con il pelame del petto, del ventre e dell’inguine. Perfino le salde e gentili braccia infine ne furono coperte. Le mani e i piedi che graffiavano fino a sanguinare la nuda terra, strappando erba, terra e sassi, divennero artigliate e letali. Con queste lunghe unghie Canavar feriva se stesso, invocando la morte. Ottenebrata dal pensiero di chi aveva perso e per quale assurda causa, la sua follia sottomise la ragione. Ne emerse allora, come un gelido demone, l’istinto che lo stava consumando fino alle ossa, che scricchiolavano e si spezzavano dolorosamente. Il ricordo della sua amata lo stava facendo impazzire e mutare. Le orecchie nello sforzo di sentire la voce della bellissima Ay lassù, nei cieli, si allungarono ed appuntirono, anche esse coperte di folto pelame ispido e moro; nello sforzo di annusare ancora il suo dolcissimo profumo e la dolce fragranza della sua pelle profumata e diafana, il naso si dilatò e fu portato più lontano dal suo volto ormai ferino e selvaggio; le labbra scomparvero e furono serrate in una smorfia d’ira per l’eternità, mentre si allungavano diventando un muso animalesco e terribile, colante di bava e de suo stesso sangue; le troppe urla confuse e terribili diventarono ringhi e poi latrati ferocissimi e terrificanti; a furia di cozzare freneticamente tra di loro, i denti si affilavano e si aguzzavano, acuminando le loro estremità. Non più denti, ma zanne. Non più labbra sussurranti dolci parole d’amore, ma un ispido e muso ferino. Non più capelli, ma irsuto pelame. Non più dio né ormai mortale, ma lupo. Nel frattempo, strappandosi le vesti e i capelli, Ay in ginocchio piangeva e gemeva. Aveva osservato il suo amato diventare pian piano un grande e feroce lupo nero, dagli occhi senza riflesso e colore definito: non avrebbe potuto mai più tenerlo tra le sue braccia, né baciarlo o sentirlo suonare la cetra. Accasciata e folle di dolore, invocava quella morte che per sua natura non avrebbe mai potuto ricevere. Ma una mano si posò sulla sua spalla.

«Chi sei, o anima compassionevoli che conforti il mio pianto?» disse la giovane dea in lacrime.

«Sono Zarah, dea della Luna» una fortissima ed intensa luce aurea ferì il volto di Ay, che rimaneva ancora al suolo, inginocchiata e tremante.

«Cosa cerchi da me, o nobilissima signora del firmamento? Per favore, se ti è possibile, lascia da sola una povera infelice e prosegui lungo il tuo cammino. Ma se puoi uccidermi – e si strinse forte il petto nudo, fino a grondare un fluido scarlatto dai forti riflessi dorati –, ebbene allora, ti prego, fallo senza indugio. A che vale essere in vita, ormai? A che serve vivere in eterno con questo dolore atroce? Ti prego…» piangeva e singhiozzava «…se concesso ti è il potere di farlo, uccidimi»

Commossa per tutta quella vicenda, la saggia e giusta dea della Luna si rivolse a lei e così parlò:

«Giovane dea, asciuga le tue lacrime e ascolta le mie parole. La mia luce rischiara la terra solo una volta al mese e, quando il mio potere raggiunge il culmine e sono nel pieno delle energie, posso scorgere tutto il vasto mondo notturno su cui regno. Io voglio aiutarti a rendere l’eternità meno terrificante. Quando io mi rischiarerò tutta nel cielo stellato, tu potrai venire con me, sedere al mio posto sul trono lunare e il tuo viso si specchierà in cielo, nel cerchio che delimita la massa lunare. E lì potrete rivedervi ancora, occhi negli occhi, respiro nel respiro, battito nel battito. Anche se lontani, potrete scrutarvi ancora per una sola notte al mese. Per tutta l’eternità, finché il mio fuoco arderà e fenderà il buio infausto».

A questa notizia, senza parole e con un nodo in gola per l’emozione, Ay si gettò ai piedi della dea e cominciò a benedirla, piangendo e parlando insieme. Le sue lacrime, copiose e calde, bagnarono le vesti della dea notturna. E arrivò il giorno prescelto. La Luna piena splendeva nel cielo buio, completamente libero d’altra luce: ancora le stelle non erano state create. Quando Ay vide la terra in tutta la sua vastità, tenebrosa e cupa, senza alcuna presenza vivente, si concentrò per cercare il suo Canavar. Notò un fitto bosco. Qualcosa si mosse fulminea, ringhiando nella notte. Ay, ancora inesperta, si concentrò meglio mentre Zarah la guardava malinconicamente, con materna dolcezza. Improvvisamente, con un grande fruscio di foglie calpestate e di erbaggi lacerati, dagli alberi un enorme profilo bestiale le si presentò allo sguardo. Maestoso, nobile e solenne l’enorme lupo nero fissava la luna, dalla fitta oscurità del bosco. Taceva. Dal buio solo i suoi occhi neri, sommersi dal candido riflesso della superficie lunare, scrutavano calmi e impassibili, mentre le zanne risplendevano affilate e la lingua penzolante, scarlatta e robusta debolmente ondulava al fremere del suo respiro leggero e regolare. Tra gli alberi spogli e gli arbusti secchi e bui, la grande bestia oscura avanzò a passi brevi e regolari, lentamente e maestosamente si spinse fino all’uscita del bosco, in una radura incontaminata e solitaria. Sollevò lo sguardo, accarezzato dalla dolce brezza notturna. Ay trasalì. Quegli occhi. Era proprio lui, il suo Canavar. Sentì stringersi il petto nel dolore più profondo, mentre Zarah la stringeva a sé come: ricordò ciò che fu, i baci, le carezze, l’amore. Vide il suo viso nella sua memoria e desiderò con tutto il suo cuore di riaverlo lì con lei. Poi , guardando quel lupo così saldo e maestoso nella sua imponenza , riconobbe in lui la realtà. Il presente. Ciò che era e che più non fu. Fu allora che gli dei capirono il vero valore del tempo e del suo scorrere per i mortali. Nulla torna indietro. Per quanto noi tutti ci impegniamo, per quanti sforzi facciamo e per quanto fossimo disposti a dare perché ciò avvenisse, nulla torna alle origini. Tutto ciò che gli esseri umani fanno, procede in avanti. Ay gemeva e tremava, scossa tra le braccia della dea Luna: poi malinconicamente, facendosi coraggio, volse il suo sguardo alla radura irraggiata dal luogo in cui lei si trovava, nella quale un lupo ormai osservava le sue lacrime. Costui abbassò lo sguardo e tristemente ringhiò con voce roca e rotta dall’emozione, guardandosi le zampe anteriori. Si guardò le unghie lucenti e sporche di fango, il pelo bagnato dalla fanghiglia piovigginosa. Furente, graffiò il suolo. Siçan. Il suo pensiero fisso. Avrebbe voluto sgozzarlo con le sue zanne e bagnare la sua gola del suo sangue. Ringhiò di rabbia e frustrazione, a testa bassa. Poi vide il riflesso di ciò che era diventato in un ruscello che proprio davanti a lui scorreva. Immaginò quello che era un tempo. Artigliò con rabbia la superficie del ruscello e latrò ferocemente, mostrando le zanne argentate. Poi volse di nuovo lo sguardo alla dea e si perse nei ricordi, calmando improvvisamente i bollenti spiriti rispecchiandosi finalmente, dopo tanto tempo, negli occhi stupendi di Ay. In silenzio nell’oscurità, mescolò la sua ferocia e la sua passione con la fredda acqua. Il lupo abbassò le orecchie aguzze e cominciò lentamente a guaire in modo pacato. Dai suoi enormi occhi neri, nei quali si rifletteva la luce della luna, ora sgorgavano lacrime sottili che gli rimanevano ferme sulle folte e pelose gote. Ma non erano lacrime copiose. L’orgoglio giocava un ruolo fondamentale: non voleva mostrarsi debole di fronte a colei che amava ma forte anche in quel destino tanto maligno e funesto che li aveva separati. Rimasero lì secondi, minuti, forse ore chissà. Il tempo era come irrigidito. Ay piangeva e lo chiamava sottovoce, sottovoce sussurrava quel nome che mai nei cieli aveva ripetuto abbastanza, sottovoce disse “Ti amo“. Canavar malinconico e così desideroso di averla ancora tra le braccia, di baciarla e di accarezzarle i capelli come un tempo ormai lontano ed irraggiungibile, guardò talmente a lungo quella superficie candida che ne memorizzò il riflesso nell’iride. Da allora anche le sue pupille ebbero riflesso. Poi si mise a sedere, curvò la schiena all’insù e chiuse gli occhi. Poi ripeté il nome di colei che sola al mondo aveva amato e che amato lo aveva a sua volta. E fu così che un lungo ululato malinconico squarciò la notte. Il primo ululato dei tempi. La prima dichiarazione d’amore della storia. Pura, semplice e primigenia, terribilmente bella e suadente. E da allora le stelle inondarono i cieli e si unirono in costellazioni. Erano le lacrime di Ay, colei che aveva amato e che ancora amava quel lupo, quelle lacrime che gocciolavano dalle sue fredde guance e che cadevano al di fuori dello specchio lunare. Qualcuna rimaneva appesa al soffitto del mondo, qualcun’ altra invece, più densa e vigorosa, non arrestava mai il suo cammino e diveniva cometa. E la Luna divenne anche il simbolo di due anime che sanno per sempre ritrovarsi, in qualunque luogo si trovino, poiché se due anime lontane guardano questo corpo astrale vedono specchiarsi in esso l’anima di colui o colei che attendono. Da quel lontano momento in poi tutta la stirpe di Canavar ululò alla luna, come tributo a colui di cui parlavano le leggende del branco. Colui che aveva amato non la luna ma la dea che dentro vi era imprigionata. Da quel momento in poi i lupi di ogni generazione e tempo lo onorarono come loro capostipite e divinità. Con la sua stessa ferocia, di cui conservarono le caratteristiche e l’indole violenta, odiarono il fuoco come lui stesso lo odiò poiché era stato l’inganno, l’origine di ogni cosa, il dolore e la perdita di ogni cosa. Odiarono il giorno, perché proprio sul suo finire il grande Canavar, il dio lupo, era rimasto intrappolato su questa terra a scontare una pena troppo alta. E da quel momento in poi mai nessun lupo si avvicinò ai fiori, memore di ciò a cui essi portarono all’inizio dei tempi e di scarlatto e lucido videro e scelsero da quel momento in poi solo il sangue.


La leggenda narra che ancora oggi, se si guarda la faccia piena della Luna,

si possa notare l’espressione triste e addolorata di Ay,

che ogni mese vi si specchia ancora per cercare la sua anima gemella


 
 
 

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